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Nasce a Fiume il 12 agosto 1909. Capitano di complemento, dopo l’8 settembre 1943 rientra a Fiume, dove riprende il lavoro all’Azienda Servizi Municipalizzati. Fa parte del Comitato cittadino popolare di liberazione e della prima cellula costituitasi in seno all’Azienda. Fonda anche un sindacato libero aziendale antifascista, che serve soprattutto a mascherare il movimento clandestino delle cellule aziendali. Per queste sue attività, Derenzini viene arrestato il 19 marzo 1944, su delazione. Viene poi portato alle carceri del Coroneo a Trieste. Il 27 aprile 1944 è deportato a Dachau e poi al sottocampo di Kottern bei Kempten. Il suo numero di matricola era 67312. Riacquista la libertà il 26 aprile 1945 nei pressi di Pfronten durante una marcia di trasferimento. Rientra a Fiume il 3 agosto 1945. Nel 1947 lascia la città, divenuta jugoslava e si trasferisce a Pavia e, successivamente, dopo la morte della moglie, a Travacò Siccomario, accanto alla figlia Lilia. Muore il 24 gennaio 1998.
Tratto da “I deportati pavesi nei lager nazisti” – Collana di monografie degli “Annali di storia pavese n. 1”:
Da giorni giacevamo in un tetro sotterraneo delle carceri del Coroneo a Trieste: la "cella della morte". Priva di un numero (una 'O' era segnata col gesso sulla porta), quella cella era la riserva di ostaggi a immediata disposizione del comando tedesco della Piazza per le rappresaglie. Vi eravamo ammucchiati in un centinaio, stipatissimi, tra italiani e sloveni. Una notte le SS spalancarono la porta della cella. Era il periodo dei fatti di via Ghega, nel corso dei quali erano stati uccisi cinque soldati tedeschi. Chiamarono uno dopo l'altro cinquanta compagni. Uno di questi che tardava a presentarsi, perché non aveva ancora calzato gli stivali, si sentì gridare in faccia:dove vai tu gli stivali non servono". Capimmo e ammutolimmo.
Li rivedemmo tutti e cinquanta, assieme a cinque giovani partigiane, appesi con un filo di ferro alle ringhiere delle scale di un palazzo, mentre le SS ci scortavano allo scalo ferroviario per deportarci a Dachau.
Partimmo da Trieste il 25 aprile 1944 e sapevamo quale sarebbe stata la nostra destinazione. il viaggio fu estenuante. Un compagno di deportazione non resistette al trauma accorsogli e si accasciò sul pavimento del vagone durante la prima notte. Credo sia stato colpito da infarto. La morte lo colse mentre eravamo in territorio austriaco. Durante una breve fermata del treno, sferrando pugni e calci alle pareti del vagone, riuscimmo a farci sentire dalle SS di scorta. Queste con l'aiuto di alcuni compagni trascinarono il cadavere dello sventurato lungo ilpavimento del vagone e poi lo scaraventarono sulla massicciata sottostante come fosse un sacco di merce qualsiasi.
Giungemmo a Dachau il 27 aprile, mentre nevicava. Sostammo a lungo di fianco all'entrata del campo. Avevano la precedenza colonne interminabili di 'zebrati' che, scortati da SS e cani poliziotto, ritornavano dai turni di lavoro notturno dalle vicine fabbriche di materiale bellico. Nell'attesa, sotto il nevischio, il nostro sguardo spaziava attonito, inorridito. L'impatto con il campo era stato tremendo. Scorgemmo le cupe torrette di vigilanza che si ergevano ai bordi del campo con le mitragliatrici puntate verso l'interno, presidiate da militari in assetto di guerra; notammo subito le fitte ed invalicabili recinzioni di filo spinato, su cui correvano gli isolatori dei fili di alta tensione; le file di baracche in esasperata successione, e avvertimmo l'acre odore del fumo che usciva dai camini del crematorio.
Una delle SS che ci scortava, invitata a farci proseguire verso l'interno del campo, così ci annunciò: "Dreihundertachtundneunzieg Stucke", "398 pezzi"! E noi, i pezzi, venimmo allora condotti negli 'uffici amministrativi' dove ebbe luogo la nostra completa spogliazione e dove venimmo derubati di ogni nostro indumento, di ogni nostro oggetto di valore.
Nudi come vermi, sotto il pungente nevischio, fummo cacciati in un vastissimo locale attrezzato a docce, capace di contenere centinaia di deportati; docce, queste, che secondo la testimonianza dei veterani del campo avevano emesso anche gas venefici per sterminare intere comunità di zingari e di ebrei. In quel locale russi e polacchi 'zebrati' erano adibiti a raderci a zero i capelli e tutti i peli del nostro corpo; altri deportati pennellavano con l'acido fenico le nostre parti rase che bruciavano come carboni ardenti. Poi a spintoni e pedate ci fecero andare sotto alle docce, che anziché acqua calda emettevano acqua gelida.
Intirizziti dal freddo, semi ustionati dall'effetto corrosivo dell'acido fenico, sempre nudi sotto la neve, venimmo condotti a passo di corsa davanti al magazzino del vestiario. Erano solo parvenze di vestiario; null'altro che cenci, che però, secondo le minacciose prediche dei kapò, dovevamo conservare con la massima cura per l'intera quarantena, ultimata la quale saremmo stati gratificati della divisa zebrata dei lavoratori.
Dovevamo infilarci quegli stracci a mano a mano che ce li scagliavano ai piedi. A me, ad esempio, sono capitate un paio di mutande logore da donna. Potevano capitare camicie lise e a brandelli, mancanti di una o di tutte e due le maniche, pantaloni senza un gambale, giacche di tutte le taglie, civili e militari, magari senza maniche, e persino i cappelli a larga tesa dei soldati neozelandesi. Insomma quando ci siamo ritrovati nel blocco a cui eravamo stati assegnati ci guardavamo e non ci riconoscevamo più. Era appena l'umiliazione iniziale che preludeva all'annullamento completo delle nostre personalità.
Dopo la vestizione ci vennero assegnati i numeri di matricola del campo. Eravamo pronti per la quarantena. Per tutto ilperiodo ci sottoposero a continue esercitazioni militari. Ci facevano camminare avanti e indietro davanti al blocco con un freddo polare. Alle cinque del mattino c'era l'adunata generale, poi la presentazione di tutto il campo ai graduati superiori, poi c'era la 'conta' e uscivano i diversi comandi per condurre i gruppi nei vari posti. Davano anche calci e pedate e se qualcuno non stava in fila o non tirava giù ilberretto, doveva rassegnarsi alle botte. Una volta così hanno ammazzato uno.
Da mangiare niente o quasi niente. Ci davano le solite porcherie. La mattina una tazza di acqua sporca che volevano far passare per thé e che faceva venire dolori al ventre o addirittura la diarrea. A mezzogiorno una brodaglia con verdure cucinate senza condimento, e con dentro anche della sabbia, e una fetta di pane, di quel pane duro che sembrava fatto con la segatura. Alla sera c'erano tre o quattro patate lesse, un po' di margarina con un'altra fettina di pane. Un giorno, alla distribuzione del rancio, la cosiddetta caha, come lo chiamavano i russi, ad esaurimento di un contenitore di cento razioni circa, il mestolo estrasse un grosso ratto, cucinatosi naturalmente insieme alla brodaglia. Poiché al ratto era rimasto appiccicato un abbondante denso di patate, una sorta di grigio puré, vidi che alcuni deportati con i loro cucchiai di legno si contendevano il ratto per recuperare e divorare avidamente quanto di quel denso riuscivano a togliere dal suo corpo. Un deportato francese mi disse che il ratto è stato poi mangiato da alcuni. Non gli ho creduto, ma potrebbe anche essere avvenuto data la fame che imperversava.
Durante la quarantena, abbiamo fatto conoscenza coi pidocchi, quei voraci divoratori del nostro sangue che ci avrebbero tormentato durante tutta la deportazione. Secondo i nostri carcerieri la quarantena doveva renderci mondi da ogni infezione e malattia in genere per poter affrontare in ottime condizioni il lavoro che ci attendeva nelle fabbriche, nelle miniere e nelle officine. Noi deportati eravamo invece persuasi che lì, nella quarantena, ci contagiavano di proposito per fare della nostra deportazione un continuo tormento.
Dopo la quarantena ci hanno mandati a Kottern bei Kempten. C'era una fabbrica di aeroplani e noi lavoravamo per la FAU 2. Con l'abito da lavoro ci hanno dato il nastrino: rosso per noi politici, verde per i delinquenti comuni, viola per gli zingari e gli asociali, nero per i criminali.
Durante il giorno eravamo sempre al lavoro, dalla mattina alle sei fino a mezzogiorno. Sul posto ci veniva distribuito il rancio: avevamo un'ora; all'una si riprendeva fino alle sei o alle sette di sera. Poi ci riportavano al campo. Qui ci davano la cena e poi cominciava l'operazione 'spidocchiamento'. Tutti i giorni ... e qualche volta ci portavano alla disinfestazione. Quando eravamo in ufficio, mettevamo i pidocchi sui cuscini dei capi o degli altri impiegati tedeschi, così, dato che pure loro si pigliavano i pidocchi, per paura di averne troppi ci mandavano allo spidocchiamento. Ci facevano fare bagni di vapore e docce calde: per noi significava una pulizia migliore di quelle solite.
Giornalmente venivamo condotti al lavoro, chi nelle fabbriche (Altbau e Neubau), chi nel Buro della Messerschmidt. Nel tragitto eravamo scortati da quattro o sei SS con altrettanti cani poliziotto. Alla partenza dal campo, dopo un'ora circa di adunate e presentazioni della 'forza', venivamo inquadrati in file per cinque. Nostra preoccupazione principale era quella di accaparrarci durante l'appello un posto all'interno delle file per non essere addentati dai cani se, malauguratamente, durante il percorso non tenevamo un perfetto allineamento nella marcia che le SS continuamente scandivano con i loro ein - zwei. In effetti l'allineamento dei gruppi di deportati che andavano a lavorare era tenuto dai cani. Ogniqualvolta un deportato zigzagava, magari per scansare una pozzanghera, ci pensava un cane ad azzannarlo per ilfondo dei pantaloni perché tornasse in riga. Molti pantaloni erano infatti sbrindellati ai fondi proprio per effetto dei denti dei cani.
II vero dramma a Kottern era, comunque, la fame. Quando si era in ufficio si poteva avere la fortuna di recuperare un bidone che rimaneva pieno sino a metà di quella brodaglia e allora il contenuto era ridistribuito. Però ci gonfiavamo lo stomaco e dovevamo cercare di smaltire quella porcheria che ingordamente avevamo mangiato. Mi ricordo che al mattino, quando ci si alzava, tanta e tale era la debolezza che bisognava farlo piano piano perché girava la testa. Se ci si alzava di scatto, la testa girava e si cadeva a terra. Nonostante tutto, quel pezzettino di pane qualche caloria la dava; se non altro serviva a tenerci su ilmorale.
11 nostro morale tutto sommato era abbastanza alto. Eravamo in parecchi italiani, qualche francese, polacchi, olandesi, russi e iugoslavi in maggioranza. Eravamo persino riusciti ad organizzare delle squadre, i cosiddetti 'gruppi di azione', in previsione che, in vista della possibile liberazione, ci portassero in qualche luogo.
I 'gruppi di azione' erano costituiti da circa dieci persone e avevamo pensato, non avendo armi, di prepararci almeno per saltare addosso a una delle SS o dei capi. Così aspettavamo. Nella notte, durante la marcia di trasferimento, quando si sostava, si mangiavano radici e lumache crude e vegliavamo dormendo con un occhio solo, stando all'erta che le SS non ci facessero qualche tiro. Di giorno ci passavamo parola su persone sospette, sui vari spostamenti delle SS, su eventuali spari che si sentivano in lontananza.
Il contatto era continuo, anche a vista, strizzandoci l'occhio. Fortunatamente i nostri preparativi non sono serviti a niente. Gli americani ci hanno colto in avanzata il 27 aprile 1945 e abbiamo visto la ritirata tedesca. A un certo punto di SS non ne abbiamo più viste! Erano spariti tutti, camion e SS: non c'era più nessuno.
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