PIETRE D'INCIAMPO
 
Lavezzari Giuliano
di anni 13
 

Figlio di Pietro Giovanni Lavezzari e di Montini Maria, di anni tredici, nativo di San Pietro Casasco,  assassinato il 26 febbraio 1945 alle ore 20 nella sua abitazione insieme ad altri 4 membri della sua famiglia.

L'eccidio fu perpetrato da quattro partigiani del luogo, ben conosciuti dalla famiglia, per motivi di rapporti  personali non del tutto conosciuti. In seguito a questo eccidio i quattro responsabili sono stati fermati e processati dal Comando di Divisione partigiana di cui facevano parte e il giorno 4 marzo 1945, tre di essi, ritenuti i responsabili materiali del fatto, venivano fucilati. Il quarto appartenente al gruppo veniva disarmato, espulso dalla formazione partigiana e successivamente consegnato, al termine del conflitto, all'autorità giudiziaria competente.

Inoltre la descrizione di questo atroce fatto di sangue è stato sapientemente ricostruito dalla dott.ssa Paola Rossi di Menconico nella sua tesi di laurea della quale ci ha gentilmente concesso di riportare qui di seguito il capitolo 1.3, avendo raccolto la testimonianza diretta di 4 persone che sono state coinvolte direttamente nel fatto accaduto. 

CORPO VOLONTARI DELLA LIBERTA’

COMANDO III DIVISIONE GARIBALDI LOMBARDA “ALIOTTA”

TRIBUNALE MILITARE della III Divisione Lombarda “Aliotta” composto da:

 

AMERICANO         - Comandante di Divisione  - Presidente

MASCHERA           - Commissario di Divisione  - Pubblico Ministero

CIRO                       -  Comandante della Brigata Crespi  - Giudice Militare

TONI                       - Capo di S.M. della Divisione  - Giudice Militare

DON VINCENZO MARTINENGO e LETO  - Giudici Civili

Dott. ALBERO       - V. Commissario della VI Zona  - Difensore

e  da quattro giurati nelle persone dei seguenti Patrioti della

Brigata “Crespi”: ARTORIGE, INGLESE, VIVIAN, VALERIO.

 

Assistito da DON VINCENZO MARTINENGO parroco della Parrocchia di TORRE ALBERI,

si è riunito  il giorno 4 marzo 1945 alle ore 15 per giudicare la causa

contro i partigiani:

LUCENTI GIULIO fu Pietro, classe 1924 (nome di battaglia “Crespi”)

DELLA GIOVANNA GIUSEPPE di Antonio (nome di battaglia “Barba elettrica”)

CHIODI GIUSEPPE di Pietro, classe 1920  (nome di battaglia “Ivan”)

DRAGHI PASQUALE di Carlo, classe 1920 (nome di battaglia “Bull”)

              Imputati di aver commesso in S. Pietro di Varzi la sera del 26 febbraio

omicidio premeditato nelle persone di:

BRUNO LAVEZZARI

SERAFINO LAVEZZARI

GIULIANO LAVEZZARI

MAGNINI MARIETTA IN LAVEZZARI

MADRE DI NANNI LAVEZZARI

 e di avere feriti:

CARLO LAVEZZARI

PLACIDO MASERI

      

 Esaminate le deposizioni dei testi ed i verbali di interrogatorio degli imputati

prodotti dal S.I.P. ed allegati al presente verbale, dopo aver proceduto ad un nuovo

esauriente interrogatorio, udito le richieste del Pubblico Accusatore ed il Difensore ALBERO.

        In seguito alle risultanze delle votazioni a scrutinio segreto

           ha condannato LUCENTI GIULIO, DELLA GIOVANNA GIUSEPPE, DRAGHI PASQUALE, autori

pienamente confessi del delitto di eccidio premeditato con violazione di domicilio

alla pena di morte mediante fucilazione.

            La sentenza è stata eseguita il giorno 4 marzo 1945 alle ore 19.

Nei riguardi di CHIODI GIUSEPPE, il Tribunale ha preso le seguenti deliberazioni:

disarmo ed espulsione dalle formazioni partigiane, deferimento al Tribunale Penale

competente al termine dello stato di guerra.

                     ZONA LIBERA SEDE COMANDO 4 MARZO 1945

 

1.3 - La strage della famiglia Lavezzari (Tesi di laurea della dott..ssa Paola Rossi)

Uno degli episodi più tragici della storia di Menconico risale agli anni della seconda guerra mondiale, precisamente due mesi prima della liberazione. Si tratta dell'assurdo sterminio di un'intera famiglia, i Lavezzarì, abitanti a San Pietro Casasco. Nell'agguato trovarono la morte la nonna Rosa, la mamma Mariettina e i tre figli - due poco più che bambini - Bruno, Serafino e Giuliano.

Autori dell'eccidio quattro uomini, appartenenti al "terzo fronte", gruppo sanguinario e senza scrupoli che spargeva il panico nei paesi.

Di seguito riportiamo quattro testimonianze che diano nell'insieme un quadro completo del fatto. La prima è quella di Carlo, unico superstite insieme al padre Giovanni, che visse la vicenda in prima persona.

"La mamma stava per mettere a letto il fratellino più piccolo, Giuliano. Papà era fuori. Eravamo in sei in quella casa in mezzo alla campagna, quella casa con la stufa in ghisa per scaldarsi e la legna accanto. Sentiamo bussare alla porta. La mamma chiede: «Chi è?» «Partigiani,» risponde una voce. La mamma dice: «Giuliano vai ad aprire.»

All'improvviso si aprì la porta. Alcuni uomini armati lanciarono due bombe a mano. Vidi le parabole, le scie, le traiettorie di quegli ordigni di fuoco e di morte. Due scoppi squassarono la cucina e fecero saltare i vetri delle finestre. Restammo tutti a terra tramortiti. Quegli assassini cominciarono a premere il grilletto del loro mitra dalla porta e dalle quattro finestre. La nonna era morta, anche i miei fratelli erano a terra privi di sensi, non sapevo se erano vivi o no. Ho visto e ho sentito tutto.( ... ) Io vidi e sentii tutto poiché quegli assassini non riuscirono ad uccidermi. Ero ferito, gravemente ferito. Mi salvai solo perché credevano che anch'io fossi morto sotto quel lancio di bombe a mano e sotto le raffiche di mitra che sparavano successivamente all’impazzata contro tutti noi, dentro la mia casa. Porto ancora sul mio corpo i segni di quella notte d'inferno. Quarantatre cicatrici, una scheggia sopra il mio occhio destro, all'interno della palpebra, una scheggia acuminata, pungente. Ho addosso decine e decine di ferite. Quei segni non li posso e non li voglio cancellare. Aprirono la porta. Diedero una rapida occhiata. Eravamo intorno al tavolo. Lanciarono le due bombe a mano. Uscirono rapidamente per ripararsi. Rientrarono subito dopo gli scoppi e cominciarono a spararci addosso, volevano darci il colpo di grazia con decine e decine di pallottole. Ci scaricarono addosso i caricatori dei loro mitra. Ricordo sempre quella porta che si apre; intravvidi le loro ombre, quelle delle bombe, un lugubre e breve sibilo che tagliò l'aria, il lancio di quegli ordigni. Sento ancora la mamma urlare, i miei fratelli urlare e li vedo cadere e morire, lì davanti a me. Sento le loro urla di sofferenza. ( ... ). Mio fratello Serafino, seminarista, vestito con l'abito talare, era ferito gravemente. L'ho afferrato nel buio e l'ho tirato sotto il lavandino di pietra della cucina per cercare di proteggerlo. Venne raggiunto in pieno da una raffica sparata da vicino, da meno di un metro. Lo colpirono al collo, fu una raffica lunghissima, interminabile. E io vidi la materia cerebrale e parte del suo cranio staccarsi di netto e cadere addosso a me. Era orribile. Morì tra le mie braccia. Le ultime parole che sono uscite dalla sua bocca: «Carlo, io muoio. Tu cerca di salvarti, fallo per il papà.»

Ho fatto quello che potevo, ho fatto di tutto per rìbellarmi, per fermarli, per resistere, per oppormi in qualche modo a quel massacro. Ho strisciato contro il muro, Mi sono avvicinato a uno di quegli assassini. Mi sono sollevato da terra a fatica, con la forza della disperazione mi sono afferrato alla canna del suo mitra. Volevo prendergli quell'arma, spostare la traiettoria dei colpi, togliergliela colle mani, impedirgli di continuare ad uccidere.

Volevo prendere quel mitra e mettermi a sparare anch'io, volevo difendere i miei cari. Dovevo cercare di salvarli. Dovevo tentare di sparare per mettere in fuga quegli assassini per impedire loro di continuare ad uccidere cosi alla cieca. La mia povera mamma e l'altro fratellino urlavano come pazzi. Erano ancora nella cameretta vicino alla cucina. Li sentivo bene, erano vivi, feriti ma ancora vivi. Anche se la bomba a mano aveva staccato a qualcuno di loro un pezzo di gamba: alla mamma, alla nonna, a Giuliano o a Bruno?

In mezzo a quel sangue, a quelle urla, a quel fuoco, a quelle raffiche mi aggrappai con tutte e due le mie mani alla canna di uno di quegli sten americani, senza la canna di raffreddamento. Quel pezzo di ferro scottava, bruciava, era incandescente. Ho stretto le mie mani intorno a quella canna che bruciava, è stato un attimo, l'ho subito lasciata. Appena hanno sentito la mia presenza, mi hanno dato un colpo terribile con la canna di quello sten, un colpo in faccia, mi hanno ributtato a terra.

Hanno cominciato a spararmi, una, due, tre raffiche all'addome. Non ho capito più niente, ero pieno di ferite, ho perso i sensi, mi si sono chiusi gli occhi. Ero ancora vivo, non so come, non so spiegarmi come sia stato possibile resistere a quella notte di morte. Mi hanno ammazzato davanti agli occhi tre fratelli, la mamma e la nonna. Chi le ha tirate quelle bombe? Chi è entrato nella mia casa per fare quel massacro? Perché è avvenuta quella carneficina? Erano partigiani. I loro comandanti non hanno potuto nascondere le responsabilità dei loro uomini: hanno fatto un processo sommario, ne hanno fucilati tre.

Era un fatto di sangue terribile, incredibile, ingiustificabile. Davanti a quei cinque cadaveri innocenti, trucidati in quella maniera bestiale, non era possibile nascondere le responsabilità degli assassini o tentare di coprire tutto, magari addossando la colpa a qualcun altro. Ma a causa dell'ipocrisia di quegli anni e di certa gente, quel processo sommario, quella fucilazione davanti ai cadaveri dei miei cari non fu sufficiente per fare giustizia. Che cosa li ha spinti a uccidere. Cosi, come delle belve? Hanno ucciso per odio politico e basta. ( ... )

Si, ero salvo, sanguinante, ma vivo, incredibilmente respiravo ancora. Se n'erano andati, convinti di aver ultimato alla perfezione il loro lavoro. Non potevano certo immaginare che qualcuno fosse sopravvissuto. Passò tanto tempo prima che potessi riprendere coscienza. In mezzo a quel silenzio irreale, ricordo il grande dolore fisico che mi provocavano le ferite. Il sangue che mi colava dappertutto, il male, la disperazione per quello che era accaduto.

Riuscii a trascinarmi fuori di casa, strisciai per terra per qualche centinaio di metri. Arrivai a fatica fino alla casa di due vecchiette, le signorine Cavanna, che abitavano ll vicino. Erano barricate dietro la porta per la grande paura, erano terrorizzate per quegli spari, quelle urla che avevano sentito un'ora, un'ora e mezza prima. Sono riuscito a farmi aprire, mi hanno raccolto, mi hanno lavato il sangue, curato e tamponato alla meglio le ferite più grandi, mi hanno bloccato l'emorragia, mi hanno dato da bere, mi hanno fasciato con le bende, le lenzuola, gli asciugamani.

Il mattino dopo tutto il paese è salito fino a casa mia. La gente era incredula, stupefatta, terrorizzata che fosse accaduta una strage del genere. All'alba fu don Balletti, il parroco, il primo ad arrivare a casa delle due vecchiette. Mi toccava, mi guardava e mi chiedeva: «Chi è stato, Carlo?» lo rispondevo pienamente cosciente: «I partigiani. Li ho visti. Li ho riconosciuti. Li ho visti bene in faccia. Quello con il mitra l'ho guardato negli occhi» non avevo nemmeno la forza di respirare, Mi portarono subito all'ospedale di Varzi( ... )".

 Passiamo ora alla testimonianza di don Pasquale Stafforinil! - a quei tempi seminarista che giunse a San Pietro con don Balletti, il mattino seguente il massacro, per officiare il rito della sepoltura.

"Giornata invernale decisamente atipica - quella del 25 febbraio 1945 - con fioritura precoce di rosmarini davanti ai casolari e sapore di primavera nell'aria. Un illusorio supplemento meteorologico fuori stagione, in questa zona insanguinata dell'Oltrepò pavese, nettamente in contraddizione con gli eventi drammatici - vissuti nell'estate del 1944 - e con il ventaglio pessimistico dei problemi e del tenore incalzante, in questa guerra civile snervante e senza quartiere. Quando cala il tramonto anche il tono della conversazione, fatta al bagliore incerto del focolare, si fa più sommesso, segnato da pause, sottintesi, sguardi allusivi, soprattutto quando la conversazione tocca la cronaca del giorno che sta morendo. La motivazione di allerta sta nella realtà paradossale che si è venuta a creare, per colmo di sventura in questo comune dell'Oltrepò pavese. Tra i combattenti per la libertà e i nazifascisti, si apre il fuoco micidiale di un "trio-killer" di vampiri insaziabili e con l'alibi a portata di mano, per il quale il senso di umanità sembra essere stato cancellato con un colpo di spugna. E' il "terzo fronte", il più vile, l'insidioso e sanguinario, che fa correre brividi nelle ossa e, all'imbrunire di ogni giorno, segna il ritorno di una psicosi collettiva che prende un po' tutti, come un male oscuro, facendo battere i denti di terrore e di insicurezza estrema. Una lista di "morituri" - la loro - nella quale ognuno potrebbe leggere il proprio nome e casato, come vittima potenziale, al sopraggiungere della notte battuta dal vento lamentoso o colma di stelle. Il risveglio antelucano scopre vittime innocenti, con gli occhi sbarrati, freddate sulle stradine fuori mano, nelle adiacenze dei cimiteri dalle cancellate arrugginite, nelle case spalancate e, dove la corrente elettrica è ancora efficiente, le lampadine accese fino a tardo giorno illuminano ancora bicchierini di cognac, sul tavolo di cucina, offerte dalle vittime agli assassini prima di essere condotti nel luogo dell'esecuzione (come nel caso dei coniugi Orazio di Milano, sfollati nella canonica di San Pietro Casasco). (. .. ) Questo è il volto spettrale della mia terra nell'inverno tragico del 1945! Sulla collina di San Pietro Casasco, prospiciente la borgata di Varzi, questa sera - 25 febbraio 1945 - il silenzio sembra più incupito e profondo(. .. ).

Nella parte bassa del paese, che dà verso la campagna e il torrente Aronchio, la famiglia Lavezzari è raccolta nell'ampia cucina, al piano rialzato della costruzione, con attigua la saletta e il caminetto. Prima di entrare in paese, i criminali della notte tirano a sorte i rispettivi compiti per questo ennesimo assassinio. C'è, nell'ampia cucina, anche nonna Rosa, una vecchietta arzilla dallo sguardo penetrante ed espressivo. Mamma  Mariettina si sente orgogliosa, tra questi suoi ragazzi schietti, esuberanti, leali, impegnati attivamente nella lotta della Resistenza con entusiasmo, dedizione ed altruismo risorgimentali.

Bruno, il primogenito, è anche invalido di guerra, Carlo è un giovanottone atletico - all'Amedeo Nazzari - studente liceale alle scuole statali, dalla proverbiale audacia e generosità.

Serafino, alunno ginnasiale del Seminario diocesano di Bobbio (Piacenza), temporaneamente chiuso, sta traducendo una versione dal greco, in programma nel ginnasio superiore.

Giuliano, dodicenne ancora in calzoni corti, riflessivo e facile al sorriso che ha luminoso, è impegnato nella lettura senza perdere il filo delle conversazioni che s'incrociano, ognuna con un tema, cadenza e tono a mezza strada tra il serio e il burlesco.

E' presente anche un ex-alpino del battaglione "Monterosa" passato nelle formazioni partigiane, ospitato amorevolmente dalla famiglia Lavezzari. Papà Giovanni è assente per inderogabili impegni di famiglia.

Sono le 20,10.  Sulla fiancata collinare, al chiarore ancora freddino di una notte di luna e di stelle, si muovono ombre spettrali dagli occhi torvi, impazienti di premere il grilletto e di lanciare la bomba contro questa incontenibile gioia di vivere.  Per questi professionisti del crimine l'ora dell'odio e della follia omicida è scoccata. Un guizzo improvviso e un fragore assordante scuotono la quiete del paesino alpestre. ( ... ) Un nuovo boato di bomba a mano fende l'aria, come una lama di raggio laser nelle carni di questa popolazione allo sbaraglio. La porta d'accesso alla cucina della famiglia Lavezzari, dopo qualche gradino in pietra e il pianerottolo, è scardinata con violenza. Le implorazioni accorate di mamma Mariettina, che offre la sua vita per l'incolumità dei suoi ragazzi, non valgono a nulla. L'odio cieco, insaziabile, come l'arsura del febbricitante, punta allo sterminio. A questa mamma eroica, che offre la sua vita, si risponde con una sghignazzata inumana, bestiale, facendo esplodere un'altra bomba a mano nelle prossimità del focolare, che canta il clima buono di questa famiglia segnata fatalmente nella lista di questi necrofori della notte.

Il Seminarista Serafino Lavezzari grida una preghiera d'invocazione a Dio e cade, in veste talare, accanto al fratellino Giuliano, sul volto del quale la morte non ha spento il sorriso buono, angelico. (Quando, il giorno dopo, tra calcinacci e tizzoni spenti, ho raccolto il quaderno ancora bruciacchiato, sul quale l'amico seminarista stava traducendo la versione dal greco, ho letto - con un nodo di commozione alla gola - le ultime frasi: «Il sonno e la morte sono fratelli» e - con l'ultima parola troncata a metà - «La morte è triste per l'uomo malvagio». Un testamento morale e un messaggio di bontà, raccolto religiosamente dalle mani dell'amico di seminario, per la storia del mondo e per la creazione di una pacifica convivenza umana).

Mamma Mariettina, nell'estremo tentativo di far scudo con il proprio corpo ai suoi ragazzi feriti, ma ancora in vita, viene barbaramente abbattuta. Tra il forno e i gradini d'accesso alla cucina - mentre mormora, ripetendo il nome dell'assassino: «Bastal. Bastai» anche a nome di tutte le mamme che, in questa insanguinata zona dell'Oltrepò, trepidano impietrite e sgomente davanti a questa escalation delittuosa. Il figlio Carlo, nel frattempo - benché gravemente ferito e inseguito dalle raffiche dei criminali - riesce a ripararsi, sanguinante, in una famiglia al centro del paese. Il giovane alpino, passato nelle file della Resistenza, tenta la sopravvivenza attraverso la gola del camino della saletta attigua, guadagnando disperatamente solo qualche metro, ma viene abbattuto dalle raffiche sparate dal basso, e ricade supino e  gravemente ferito agli arti inferiori. Trattenendo, con forza sovrumana di volontà, i gemiti e il respiro, è ritenuto esamine e gli viene risparmiato il colpo di grazia ( ... ).

Davanti alla casa vuota, tra i cinque feretri allineati, Giovanni Lavezzari parla con i suoi morti e, a tratti, con le braccia spalancate verso i boschi, che fanno da sfondo al paese apostrofa con voce incrinata di pianto: «Assassini, venite e uccidete anche me!» ( ... )"

 Riportiamo ora i racconti di due testimoni (Achille Ernesto e Dellagiovanna Giulia), che hanno vissuto come in un incubo la notte del fatidico 26 febbraio 1945 conservandone un ricordo indelebile. Abbiamo chiesto loro di raccontarci gli eventi di quella notte così come personalmente la memoria poteva ricostruire.

"Quella sera li, quando hanno ucciso i Lavezzari, era verso le otto. Un'ora e mezza prima Carlo era qui, in questa casetta qui (quando l'aria era un po' chiara [quando non c'era pericolo], si radunavano tutti li). Era il 26 febbraio del 1945, verso le otto. Sentiamo sparare. Usciamo fuori, le pallottole arrivavano fino lì alla casa di Francesco, c'era una pianta di fichi. Dopo un quarto d'ora passa su Lavezzari [Carlo] di corsa, piangendo: «Oh, la mia famiglia! C'è ancora il mio Giuliano vivo!» Aveva tredici anni [Carlo] lo ha nascosto Luisa in queste case diroccate, avevano paura che lo seguissero, invece non sono venuti. Carlo è uscito conle figlie dii Giorgi, è riuscito a scappare. La mamma ha tentato di uscire anche lei, l'hanno uccisa lì dove avevano il forno. Era lì distesa, non ha versato una goccia di sangue, col mitra le hanno tagliato la gola. Al mattino siamo andati a vedere, il sangue veniva fuori dai gradini. Di notte non ci è andato nessuno. Hanno tentato di andarci questi giovani qui, ma poi sono tornati indietro. Si è salvato un garzone, un ex-alpino: ha fatto in tempo ad aprire la porta della sala, c'era un camino, si è attaccato alla catena, gli hanno sparato nelle gambe. Mariettina l'hanno uccisa fuori, Rosina, la nonna, è morta subito, per lo spavento, quando hanno tirato la bomba a mano. [Quel povero ragazzo] si è finto morto, aveva il portafoglio con dentro qualche lira, gli hanno preso anche quelle. E lui, questo povero ragazzo, quando è passata la burrasca, che tutti erano morti - cinque: Mariettina, Rosina, Bruno, Giuliano e Serafino, la nonna, la mamma e tre figli - il garzone si è trascinato fuori di casa, chiedeva aiuto, ma non rispondeva nessuno, avevano tutti paura ad aprire la porta. Lui che cosa ha fatto? Li vicino al portico di Adolfo c'era la stalla, c'era un po' di paglia, si è buttato lì. Al mattino l'hanno portato via, l'hanno caricato su un carretto e l'hanno portato in ospedale a Zavattarello. Si è salvato. Al mattino, arriva su don Balletti, perché noi non avevamo il prete, perché il nostro prete [don Paolo Ghigini] l'hanno ucciso nel 1944. Io facevo il  campanaro, gli ho chiesto:

«Suoniamo le campane oppure no?»

«Ma fate come volete!»

 D. - Ma sapevate chi erano?

Si lo sapevamo tutti. Aveva già minacciato Bruno, gli aveva sparato con il fucile da caccia. E' quello di Giarola, Draghi Pasquale, odiava Bruno, perché Bruno faceva [aveva interessi] a destra e a sinistra, loro andavano ovunque, avevano quattro o cinque tessere, quello di Giarola ha fatto la confìdenza a Bruno che voleva andare nei partigiani. Bruno gli ba detto: «Ti ci porto io in un (posto di] comando» L 'ha portato a Voghera, ma appena dentro si è accorto che c'erano i fascisti. Ha fatto in tempo a scappare, ma è quando è scoppiata la grana. Teneva d'occhio Bruno, gli ha sparato.

Loro erano fascisti, socialisti, come a loro faceva comodo. Avevano la casa piena di roba. Io sono andata a prendere il sale, ero senza. Un chilo di sale: quattrocento lire!

Il padre, Nani - era via per contrabbando quando hanno ucciso la sua famiglia - era sempre a lite con la moglie, perché si facevano le corna, salta su e dice: «Non so cosa vogliono nella mia famiglia, la roba che ho in casa mia chiude anche la toppa della chiave, e poi non sono mai contenti.» Era un momento in cui la gente non trovava niente, nè olio, nè sale, nè burro, niente. Lui diceva che aveva la casa piena.

Quello della Giarola si è preso odio [verso Bruno] per questo fatto, gli ha sparato, [Bruno] si è buttato sotto i gradini di casa, si è salvato.

Lui [Draghi Pasquale], Pippo, quello di Caminata, quello di Vigomarito [Chiodi Giuseppe], si sono messi insieme, hanno detto: «Adesso li facciamo fuori!» Il capo era quello di Giarola. Pippo ha detto a Maria: «Anche se senti gridare e sparare, non uscire di casa, chiuditi dentro!»

Era una cosa che si sapeva. Lei, la moglie di Nani, Mariettina, qui in paese ha detto:

«Oh Signore, quei ragazzi lì dicono che ci vogliono uccidere, ma sono cosi bravi, io non ci credo. Guarda sono passati di là [in casa] l'altra sera, gli ho dato da bere!»

Hanno controllato la situazione. Alle otto c'è stata la sparatoria, li hanno uccisi tutti. C'erano dentro [in casa] i figli di Giorgi: Elsa, Angelo e Piera. Quando hanno sentito sparare Elsa ha gridato: «Lasciateci stare, siamo i figli di Giorgi!»  Quando hanno sentito così, li hanno lasciati andare, ed è quando in mezzo a loro è scappato anche Carlo.

Il 26 di febbraio hanno ucciso i Lavezzari, il 23 di febbraio avevano ucciso due signori di Milano: il signor Bruno e la signora Edvige, erano scappati da Milano, erano nella canonica, per salvarsi dai bombardamenti. Li hanno uccisi in mezzo alla strada, per andare alla Costa [di San Pietro], perché quando hanno sparato a Bruno e si è salvato, quel signore lì [ di Milano] era in chiesa a messa. e diceva: «Sono assassini, da fucilare!» Quello di Giarola ha sentito. Li ha fatti fuori per non essere scoperto. Quando li abbiamo seppelliti, loro erano li [nascosti] in un boschetto per vedere se c'era gente o se non ce n'era [al funerale].

E' venuto su un partigiano. Carlo li aveva riconosciuti. Glielo ha detto: «Sono il tale, il tale e il tal altro!» Dopo due o tre giorni li hanno presi, tutti e quattro. Allora li hanno portati a Torre degli Alberi, quei tre lì, li hanno fucilati, e il carabiniere [Chiodi] l'hanno processato, gli hanno dato vent'anni.  Il  1° marzo li hanno presi, il 4 li hanno fucilati. Li hanno tenuti tre giorni in una stanza, c'era un camino che aveva solo una sottile (parete) di mattoni. Se ritardano [qµalche ora] niente, scappava, toglieva la calcina con un coltellino. Se scappava, non lo prendevano più.[In quel periodo], nessuno usciva di casa, avevamo tutti paura, loro andavano ovunque.

E' stata una cosa grave, sono morti degli innocenti, però erano un po' tutti della stessa specie”

 

Riportiamo infine la testimonianza di Maria Morelli che quella sera, all'età di otto anni e cinque mesi, fu testimone dell'eccidio della famiglia Lavezzari.

"Era la sera del 25 febbraio 1945. All'imbrunire la mamma dei fratelli Lavezzari, Maria Lavezzari, che noi chiamavamo affettuosamente Marietina, si recò dalla casa nuova, di ultima costruzione, alla casa vecchia, che erano vicinissime - e la casa vecchia era adiacente alla nostra - per prendere un pugno di ceci per fare la zuppa il giorno dopo e disse a mia madre: «Erminia sta séra, per piasì; lasa nì i to fio in cà mia, perchè gh'o adoso o agitasiò, l’è tut il dì che a ‘n stò pù int la pèl!» E io che ero sempre vicino a mia madre ricordo ancora queste parole. E mia madre le ha detto: «Si. si Marietlna, i végnan.",>

E anche Maria Chiodi, la mamma di Franca Dellagiovanna ha sentito questa frase. Verso le otto (mio papà era assente, si era recato a Voghera con un cesto dì frutta secca per poter comprare un paio di scarpine a mio fratello Pino - erano tempi di miseria, durissimi), mia sorella Elsa di sedici anni, la primogenita portava in braccio mio fratello Pino di cinque anni, e mio fratello Angelo di quattordici anni andarono a casa dei Lavezzari, perché eravamo ... eravamo proprio uno per tutti, tutti per uno, un grande affetto ci legava, siamo cresciuti fra mille gioie. Io rimasi in casa con mia mamma e ricordo che disegnavo. Improvvisamente sentiamo un boato terrificante (verso le dieci di sera, ma non posso dire l'ora esatta perché non avevamo neanche la sveglia), con un suono che sembrava di quintali di calcinacci che cadevano su una lamiera ondulata. Dopo questo boato, abbiamo iniziato a sentire un crepitio di mitraglia e si è innalzato all'unisono un suono terrificante di dieci persone, uomini e donne insieme, e bambini. Mia madre, incinta di sette mesi, senza il marito vicino (anche il papà dei Lavezzari mancava da casa), incomincia a star male e a dire: «Oh Signore, oh Signore! Oh, i miei fìglì!» e incomincia a sudare e denudarsi.

E io aggrappata a lei a gridare: «Mamma, mammah> Noi bambini della civiltà contadina non eravamo come i bambini del giorno d'oggi; si capiva tutto senza parlare, si diventava come gli animali, tutto si intuiva, ed erano intuizioni perfette, senza parlare. Mia madre è rimasta con una camiciola addosso e le mutandine. Mi ha colpito questa pancia che io nella mia purezza, nella mia ingenuità vedevo che la mamma era grassa, che aveva la pancia, ma quando l'ho vista spuntare così con questa pancia di una donna sudata e che invocava il Signore ...

E intanto la mitraglia ha iniziato a crepitare e man mano una voce calava. Ci siamo trascinati fuori dalla porta e ci siamo portati al limite della casa. In quel momento (ricordo che quella sera c'era un chiaro di luna che la vista era quasi a giorno, una luna meravigliosa), vediamo Carlo Lavezzari, col maglione bianco, che saliva la strada di corsa non gli erano rimaste che le gambe a questo punto, povero ragazzo, correre ad una velocità, non è che l'abbia vista ingigantita perché ero bambina, ne vedevo di ragazzi correre, con una velocità che io non ho mai visto in nessun ragazzo, E' passato vicino a noi come una freccia, il suo alito, il suo ansimare, l'ho ancora nelle orecchie adesso. Correva in una maniera spaventosa. L'hanno intravisto, questi uomini, e gli han fatto una raffica di mitraglia. Alcuni proiettili sono andati a sbattere contro quei pochi centimetri di muro che c'erano prima che la casa finisse, in modo che mia madre si è vista un polverone davanti agli occhi e con un lamento, che non era un urlo, quasi animalesco, che non dimenticherò mai più, mi portò di corsa in casa. Capì che sarebbero bastati pochi centimetri perché inchiodassero anche noi due al muro.( ... )

Quando erano tutti al tavolo, mi sembra che giocassero a carte o raccontassero storie, sentono bussare alla porta. Qualcuno ha risposto: «Chi è ?>> Dalla parte della strada si qualificarono. Uno della famiglia Lavezzari andò ad aprire la porta. In quel momento si vide una mano gettare una bomba a mano che scaricò sotto la stufa ed è stato questo il boato tremendo che abbiamo sentito io e mia madre. Dalle schegge di quella bomba penso che siano rimasti feriti quasi tutti, i miei fratelli hanno ancora nelle gambe alcune schegge che non si sono potute togliere. Potevano rimanere morti anche i miei fratelli: una bomba a mano non ha un cervello. Hanno iniziato a sparare. Marietina, mia sorella Elsa con Pino, Angelo si rifugiarono nel salottino e chi sotto il tavolo, chi inginocchiato per terra, urlavano, aspettavano che qualcosa succedesseperché questi poveretti non avevano nessuna via d'uscita, se non quella della porta d'entrata, le finestre erano chiuse dalle inferriate. Mio fratello Angelo, al culmine del terrore, è stato preso da un'idea che è stata il suo salva vita. Si mette a gridare: «nmi:suni, suni lasése sto che sumo i fio ad Giorgi,>   La voce di uno di questi uomini dice: «Fuori i figli di Morelli, fuori i figli di Giorgi.»

Mia sorella Elsa ferita alle natiche, alle gambe non in modo grave, è uscita con in braccio Pino; la mamma Marietina, scavalcando sua madre, che era già morta, tra le due porte, e forse avrà visto anche qualche figlio morto questa povera donna è uscita aggrappandosi a Elsa, alle spalle, e si faceva piccola, quasi per nascondersi. Elsa è uscita, ha sceso quei pochi gradini; questi uomini hanno riconosciuto Marietina, che era della famiglia, perché è chiaro che l'intenzione era di sterminare la famiglia; l'hanno presa, le hanno dato uno strattone, l'hanno sbattuta fra il forno e un cancello di ferro e le hanno fatto una raffica di mitra. Angelo è sceso anche lui insieme a Carlo. Carlo aveva lo stesso maglione di lana bianco di Angelo, tutti e due alti allo stesso modo. Cosa ha giocato di confusione mentale negli uomini che sparavano, questo non lo sapremo mai, per cui nella frazione di pochi secondi, nell'attesa di far uscire i figli di Morelli, si sono astenuti dallo sparare e Carlo ha potuto prendere quel volo terrificante che è stato la sua salvezza. Mio fratello Angelo ha girato dietro la casa ed è andato in un cascinotto di fieno ed è stato li un po', pieno zeppo di sangue. In casa eravamo disperate, la luce spenta, entra Elsa con in braccio Pino. Aveva i capelli bianchi per la calce che le era caduta sulla testa, sconvolta. Pino che piangeva e diceva: «Mama, J àn masà Martetinal>>

Marietìna per noi era una mamma, una seconda mamma. Pino piangeva, bisogna zittirlo perché non era conveniente fare del baccano. Il crepitio delle mitraglie andava diradandosi, si sentiva sempre meno. Si sentivano solo i canì del paese che sembravano impazziti. Passati dieci minuti, un quarto d'ora ( chi può dirlo!), vediamo uno spettro presentarsi davanti a noi, era Angelo, di un pallore che lo stesso pallore l'ho visto quando era nella bara. Viene in casa e mia madre ha acceso la luce, ancora un attimo, per rendersi conto.

Angelo si è tolto da solo uno stivale, l'ha rovesciato, era come rovesciare una bottiglia di vino: lo stivale era pieno di sangue, era stato colpito duramente alla gamba. Mia madre prende tutti, la lupa ferita coi suoi lupacchiotti feriti, ci porta nella camera da letto sopra la cucina, e passa la notte a calmare i figli, senza medicinali, senza bende sterilizzate. Cercare sciarpe (magari unte e bisunte), per fasciare le gambe dei figli. Il più piccolo si lamentava, lei gli metteva una mano sulla bocca. Sempre seminuda. Scese un silenzio totale: era rimasta la luna e il lamento dei miei fratelli. A mattina inoltrata arrivarono alcune donne; sentivano le mucche che muggivano, perché dovevano essere munte, e nessuno era ancora sceso dalla camera da letto, nessun contadino aveva ancora aperto la porta di casa per il terrore.

E' arrivata una brava donna, Luisa, la mamma di Carlo Cavanna, ha aiutato mia mamma a bendare questi ragazzi che poi sono partiti per l'ospedale di Varzi. Mio padre non era ancora arrivato.

Carlo Lavezzari si era rifugiato presso la famiglia Cavanna, sempre quella Luisa. Mia madre aveva attraversato il cortile, cercava di dare uno sguardo e ha visto Marietina e una cagnetta nera seduta vicino. E' probabile che questa cagnolina le abbia fatto compagnia per tutta la notte. Io sono scesa pian piano, senza dire niente a nessuno, ho attraversato la strada e vado verso la casa dei Lavezzari.

E' l'incoscienza dell'età, non si può chiamarlo coraggio, non so cosa mi ha spinto. So però che mi sembra di rivedere una bambina di pietra, non avevo più sentimenti, non soffrivo e non gioivo, avevo solamente due occhi e due orecchie formidabili, ma in me di sentimenti non ce n'erano. Sono scesa e ho visto Marietina raggomitolata, con le ginocchia vicino al mento e poi piano, piano entro in casa. Saliti i gradini già tutti macchiati di sangue, la porta era semichiusa, ricordo che con la manina ho dovuto spingerla un po'. Sono stata la prima ad entrare. Non era ancora passata anima viva.

Ho spinto la porta crivellata di buchi delle pallottole; sono entrata e gli unici riconoscibili dal volto erano Serafino, Giuliano e la nonna. Ho visto un pavimento in cui poche piastrelle non erano coperte di sangue, tutto rosso come se avessero buttato dei secchi di vernice.

La luce era accesa, ha tenuto loro compagnia per tutta la notte. Stavo là e guardavo senza provare alcuna emozione di terrore, di spavento. Sono tornata a casa e non ho detto nulla alla mamma; ho tenuto questa fotografia per me ed è ancora impressa nella mia mente come se fosse ieri.

Dopo un po' di tempo è sceso un ragazzetto della Costa, un certo Carluccio, io ero sulla strada e mi dice: <<Endùma un pò a vègh cul che l'è sucèso !». Mi ha preso per mano e io sono entrata per la seconda volta. E so che anche lui non ha fatto un commento, non ha detto una parola. Noi guardavamo e basta.

Dopo il ricordo delle cinque bare che sfilavano davanti a casa mia. Ero là nel cortile a fissare quelle cinque bare e mia madre si faceva ilsegno della croce. E nel rustico corteo funebre un uomo magro e claudicante e una donna di piccola statura allora a me sconosciuti, si sfamavano spezzettando una micca dipane stretta sotto l'ascella.

Serafino, Giuliano, Marietina, Rosa che il vostro riposo sia lieve.

Il garzone, il giovane Placido, gravemente ferito stette in casa ancora per chissà quanto tempo, forse un'ora, forse due, fingendosi morto, perché questi uomini che avevano sterminato la famiglia si fermarono ancora un pochino e si aggirarono per la casa, fra le loro vittime, e lui dovette fingersi morto.

Quando fu sicuro che si erano allontanati, lui si trascinò letteralmente, perché non si reggeva più sulle gambe tanto erano gravi le ferite; bussò alla porta di Esterina, non gli aprirono, non certo per vigliaccheria, ma eravamo in uno stato di terrore tale che non si sapeva chi era che bussava. Allora vedendo che nessuno apre, si trascinò per pochi metri, entrò nella stalla di Antonio Faccini e vi trascorse la notte.

Vorrei ricordare tre donne accomunate dall'orrore degli eventi: Maria Lavezzari, mia madre Erminia Stafforini Morelli e la madre di uno dei giovani autori della strage fucilato a Torre degli Alberi in provincia di Pavia, Caterina Draghi.

Personalmente non sono stata testimone oculare, ma in paese è noto che l'intrepida e fiera donna dopo aver scavato di sua mano nel cimitero di San Pietro la tomba per il figlio, percorse a piedi decine e decine di chilometri, guidando un asinello che trainava una slitta sulla quale avrebbe poi deposto il corpo del figlio."  

 
 
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RICORDATO NEI SEGUENTI LUOGHI:
 
Menconico - Piazza del Municipio
Monumento eretto a Menconico nella piazza del Municipio ...
 
Coordinate GPS del Luogo del Ricordo:
+44.795700, +09.279033
+44°47.742’, +09°16.742’
+44°47'44.52, +9°16'44.52
 
divisorio_nomi.jpg
Menconico - Chiesa di San Pietro Casasco
Dipinto murale all'interno della chiesa di San Pietro Casasco nel comune di Menconico    ...
 
Coordinate GPS del Luogo del Ricordo:
44.809749, +09.238837
44°48.585', +09°14.330'
44°48'35.10
 
divisorio_nomi.jpg
 
Elenco Caduti